L'ontologia fisica di Nietzsche al tempo dello Zarathustra

Emanuele Enrico Mariani

Abstract


In particolare Hermann Oldenberg (1854-1920), orientalista e storico delle religioni, nel suo saggio sul Buddha e la sua dottrina - del quale si trovano tracce di lettura da parte di Nietzsche già negli appunti del 1882[1] - si era soffermato sull’intersezione di senso e significato che intercorre tra il Sé e l’Atman vedico.[2] L’Atman, inizialmente concepito come entità separata dal mondo, veniva trasposto dal buddhismo in istanza definitiva di salvazione, in opposizione al ciclo reiterato della metempsicosi, concretizzandosi nell’immagine del Nirvana e della liberazione.[3] Riguardo al testo dell’Oldenberg, alcune corrispondenze tematiche e terminologiche paiono ai nostri fini estremamente interessanti. L’indologo tedesco, difatti, citando il Bramana dei cento sentieri riporta, tra gli altri, un brano che pare fungere da matrice alla tematizzazione nietzscheana: in tali luoghi si connota l’Atman come esistente al di là del bene e del male ed innalzato al di sopra della ricompensa e della punizione.[4] Se una svariata pluralità di apporti a sfondo religioso si denota come fonte preziosa per la stesura dello Zarathustra, da questa, ed in particolare dalla visione buddhista, la prospettiva di Nietzsche sembra distaccarsi proprio nel momento in cui è il corpo stesso a dover essere celebrato ed innalzato. La fisicità è l’invalicabile caratteristica dell’umano a fronte della quale anche la parola può mostrarsi in potenziale disaccordo, ovverossia quando non rispetti il dato incontrovertibile e certo del suo esporsi. D’altra parte dall’ultima sezione dello scritto dell’Oldenberg,[5] come anche da tutto l’insieme della sua riedizione del 1921, si evince chiaramente quanto sia forte il connotato ascetico del buddhismo, credo scaturito dal seno stesso dei Veda. In Nietzsche, al contrario, il corpo, in modo anti-cartesiano,[6] facendo ‘io’ fornisce l’evidenza di ciò che si è, mentre il ‘dire’ si mostra esposto ad una confessione talvolta involontaria delle tendenze che la fisicità stessa esprime grazie ai suoi istinti ed alla sua tensione volitiva e desiderante.

Sarà proprio il plesso tematico “corpo/piacere-desiderio”[7] a determinare la netta distinzione dell’insegnamento di Zarathustra da quello ancora marcatamente ascetico del Buddha[8] e da quello della tradizione ecclesiastica Cristiana. Qui l’incedere della sofferenza e l’attraversamento della notte dello spirito[9] rivelano tutto il proprio portato che sembra infrangere ogni tensione vitalistica sensata; ma la voce stessa del dolore - che si riflette sul corpo e da questo prorompe - ‘dice’ sinteticamente sia di una auto-negazione che si pronuncia nel senso del passare e dello svanire, sia della vittoria, dal sapore eterno, del “piacere-gioia” su ogni mestizia e sofferenza incarnate.[10]


[1] OFN, VII, I, I, 2 [1].

[2] H. Oldenberg (1881) 1992, 40-47, 57.

[3] H. Oldenberg (1881) 1992, 49-56.

[4] H. Oldenberg (1881) 1992, 55. Cfr. Za I, 85; Za II, 107; Za IV, 302.

[5] H. Oldenberg (1881) 1992, 381-385.

[6] P. Wotling 2006, 15.

[7] Za II, 140.

[8] H. Oldenberg (1881) 1992, 240-243.

[9] G. M. Pizzuti 1986, 164.

[10] Za III, 267-268.


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ISSN: 2281-3209                DOI Prefix: 10.7408

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